dalla storia

racconti

un serbatoio per leggere racconti
e per farci stare tutte quelle parole che nell'altro non ci stanno
e per ricordare che tutto ciò che è scritto è vero ed esiste

mercoledì 21 novembre 2007

Nessun popolo è illegale

Violenza, propaganda e deportazione. Un manifesto di scrittori, artisti e intellettuali contro la violenza su rom, rumeni e donne

La storia recente di questo paese è un susseguirsi di campagne d’allarme, sempre più ravvicinate e avvolte di frastuono. Le campane suonano a martello, le parole dei demagoghi appiccano incendi, una nazione coi nervi a fior di pelle risponde a ogni stimolo creando “emergenze” e additando capri espiatori.
Una donna è stata violentata e uccisa a Roma. L’omicida è sicuramente un uomo, forse un rumeno. Rumena è la donna che, sdraiandosi in strada per fermare un autobus che non rallentava, ha cercato di salvare quella vita. L’odioso crimine scuote l’Italia, il gesto di altruismo viene rimosso.
Il giorno precedente, sempre a Roma, una donna rumena è stata violentata e ridotta in fin di vita da un uomo. Due vittime con pari dignità? No: della seconda non si sa nulla, nulla viene pubblicato sui giornali; della prima si deve sapere che è italiana, e che l’assassino non è un uomo, ma un rumeno o un rom.
Tre giorni dopo, sempre a Roma, squadristi incappucciati attaccano con spranghe e coltelli alcuni rumeni all’uscita di un supermercato, ferendone quattro. Nessun cronista accanto al letto di quei feriti, che rimangono senza nome, senza storia, senza umanità. Delle loro condizioni, nulla è più dato sapere.
Su queste vicende si scatena un’allucinata criminalizzazione di massa. Colpevole uno, colpevoli tutti. Le forze dell’ordine sgomberano la baraccopoli in cui viveva il presunto assassino. Duecento persone, tra cui donne e bambini, sono gettate in mezzo a una strada.
E poi? Odio e sospetto alimentano generalizzazioni: tutti i rumeni sono rom, tutti i rom sono ladri e assassini, tutti i ladri e gli assassini devono essere espulsi dall’Italia. Politici vecchi e nuovi, di destra e di sinistra gareggiano a chi urla più forte, denunciando l’emergenza. Emergenza che, scorrendo i dati contenuti nel Rapporto sulla Criminalità (1993-2006), non esiste: omicidi e reati sono, oggi, ai livelli più bassi dell’ultimo ventennio, mentre sono in forte crescita i reati commessi tra le pareti domestiche o per ragioni passionali. Il rapporto Eures-Ansa 2005, L’omicidio volontario in Italia e l’indagine Istat 2007 dicono che un omicidio su quattro avviene in casa; sette volte su dieci la vittima è una donna; più di un terzo delle donne fra i 16 e i 70 anni ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita, e il responsabile di aggressione fisica o stupro è sette volte su dieci il marito o il compagno: la famiglia uccide più della mafia, le strade sono spesso molto meno a rischio-stupro delle camere da letto.
Nell’estate 2006 quando Hina, ventenne pakistana, venne sgozzata dal padre e dai parenti, politici e media si impegnarono in un parallelo fra culture. Affermavano che quella occidentale, e italiana in particolare, era felicemente evoluta per quanto riguarda i diritti delle donne. Falso: la violenza contro le donne non è un retaggio bestiale di culture altre, ma cresce e fiorisce nella nostra, ogni giorno, nella costruzione e nella moltiplicazione di un modello femminile che privilegia l’aspetto fisico e la disponibilità sessuale spacciandoli come conquista. Di contro, come testimonia il recentissimo rapporto del World Economic Forum sul Gender Gap, per quanto riguarda la parità femminile nel lavoro, nella salute, nelle aspettative di vita, nell’influenza politica, l’Italia è 84esima. Ultima dell’Unione Europea. La Romania è al 47esimo posto.
Se questi sono i fatti, cosa sta succedendo?
Succede che è più facile agitare uno spauracchio collettivo (oggi i rumeni, ieri i musulmani, prima ancora gli albanesi) piuttosto che impegnarsi nelle vere cause del panico e dell’insicurezza sociali causati dai processi di globalizzazione.
Succede che è più facile, e paga prima e meglio sul piano del consenso viscerale, gridare al lupo e chiedere espulsioni, piuttosto che attuare le direttive europee (come la 43/2000) sul diritto all’assistenza sanitaria, al lavoro e all’alloggio dei migranti; che è più facile mandare le ruspe a privare esseri umani delle proprie misere case, piuttosto che andare nei luoghi di lavoro a combattere il lavoro nero.
Succede che sotto il tappeto dell’equazione rumeni-delinquenza si nasconde la polvere dello sfruttamento feroce del popolo rumeno.
Sfruttamento nei cantieri, dove ogni giorno un operaio rumeno è vittima di un omicidio bianco.
Sfruttamento sulle strade, dove trentamila donne rumene costrette a prostituirsi, metà delle quali minorenni, sono cedute dalla malavita organizzata a italianissimi clienti (ogni anno nove milioni di uomini italiani comprano un coito da schiave straniere, forma di violenza sessuale che è sotto gli occhi di tutti ma pochi vogliono vedere).
Sfruttamento in Romania, dove imprenditori italiani - dopo aver “delocalizzato” e creato disoccupazione in Italia - pagano salari da fame ai lavoratori.
Succede che troppi ministri, sindaci e giullari divenuti capipopolo giocano agli apprendisti stregoni per avere quarti d’ora di popolarità. Non si chiedono cosa avverrà domani, quando gli odii rimasti sul terreno continueranno a fermentare, avvelenando le radici della nostra convivenza e solleticando quel microfascismo che è dentro di noi e ci fa desiderare il potere e ammirare i potenti. Un microfascismo che si esprime con parole e gesti rancorosi, mentre già echeggiano, nemmeno tanto distanti, il calpestio di scarponi militari e la voce delle armi da fuoco.
Succede che si sta sperimentando la costruzione del nemico assoluto, come con ebrei e rom sotto il nazi-fascismo, come con gli armeni in Turchia nel 1915, come con serbi, croati e bosniaci, reciprocamente, nell’ex-Jugoslavia negli anni Novanta, in nome di una politica che promette sicurezza in cambio della rinuncia ai principi di libertà, dignità e civiltà; che rende indistinguibili responsabilità individuali e collettive, effetti e cause, mali e rimedi; che invoca al governo uomini forti e chiede ai cittadini di farsi sudditi obbedienti.
Manca solo che qualcuno rispolveri dalle soffitte dell’intolleranza il triangolo nero degli asociali, il marchio d’infamia che i nazisti applicavano agli abiti dei rom.
E non sembra che l’ultima tappa, per ora, di una prolungata guerra contro i poveri.
Di fronte a tutto questo non possiamo rimanere indifferenti. Non ci appartengono il silenzio, la rinuncia al diritto di critica, la dismissione dell’intelligenza e della ragione.
Delitti individuali non giustificano castighi collettivi.
Essere rumeni o rom non è una forma di “concorso morale”.
Non esistono razze, men che meno razze colpevoli o innocenti.
Nessun popolo è illegale.

martedì 13 novembre 2007

Primo: ragionare con la propria testa

Un commento di AleTozzi

Il rischio è sempre quello: che l'opinione pubblica diventi la propria.
E più la situazione è ingarbugliata, più l'opinione pubblica si sfrangia, più nessuno ci capisce niente. Un po' come la politica in Italia.
La cronaca è questa: domenica è morto un ragazzo di 26 anni, in un autogrill di Arezzo.
Tifoso della Lazio, deejay, di buona famiglia, ragazzo tranquillo, andava a Milano a vedere la partita. Colpito al collo da un proiettile sparato dalla stazione di servizio opposta da un poliziotto, senza che vi sia stato un motivo: forse una rissa (ormai finita), forse un errore.
Non si sa. La stessa Polizia, e il ministero, ammettono l'errore. Fra poco anche l'orrore, magari, chissà.
Questo è il primo fatto.
Il secondo è che un odio, che cova sotto la cenere da anni, in quel momento esplode.
Nella maggior parte degli stadi si gioca, ma in un clima surreale. A Milano la partita non si gioca. A Bergamo, invece, dopo 7 minuti sono gli ultras a imporre ai giocatori di uscire dal campo. Simile a quello che avvenne in un derby di qualche anno fa, con i tifosi che alla fine del primo tempo scendono in campo, e di fatto chiudono la partita.
Quel derby fu un evento epocale, forse anche la presa di coscienza da parte dei tifosi che avevano voce in capitolo, se erano uniti, meglio ancora se romanisti e laziali insieme. Per vari motivi: a nessuno conveniva farne dei martiri, le società subivano i loro ricatti quotidiani, gli stessi giocatori erano legati a doppio filo con i capi ultras. Sembra quasi l'inizio del film "I guerrieri della notte", quando bande di tutta New York confluiscono a Central Park per unirsi, e diventare una potenza vera e propria. Così in fondo i tifosi, anche se sparsi sulla Penisola.
Ma torniamo ai fatti. La sera è in programma Roma-Cagliari. Dopo lunghe discussioni, si decide di non giocare, per evitare scontri. Solo che i romanisti sono già arrivati allo stadio, e con loro i laziali, a dare man forte, uniti contro il nemico comune. Il risultato sono ore di scontri cruenti, con un commissariato assalito, gli uffici del Coni devastati, una camionetta della Polizia bruciata, e una guerriglia urbana per tutta la zona.
La Polizia, durante la serata, non fomenta gli scontri, tende a lasciar fare, come un padre che capisca di aver fatto una stupidaggine per primo, e di dover lasciare sfogare i propri figli fino al momento di andare a letto. Lo sfogo dura alcune ore, poi si quieta.
Molti i Soloni convinti di aver capito tutto: chi se la prende con i tempi, chi con gli Ultras, chi con la Polizia. Alcuni suggeriscono di interrompere il Campionato, altri di arrestare tutti i manfestanti facinorosi, altri ancora di vietare lo stadio agli Ultras.
La giornata si chiude con fili di fumo dallo stadio Olimpico, gli ultimi incendi di una serata da segnare sull'agenda come una serata dove la parola civiltà subisce un ulteriore arretramento.

Io non so come uscirne. Più probabilmente non se ne esce, anche misure drastiche non risolverebbero la situazione in maniera radicale. Sono fra quelli che non credono che gli stadi possano essere luoghi straordinari, visto che la società è quella che è: si tratterebbe di un'anomalia se fosse così.
Non è così.
Una cosa però si potrebbe fare.
Il primo repulisti, serio, se lo dia il calcio.
Via Matarrese, Carraro, Biscardi, e tutti quanti, visto che Calciopoli non è bastata a mandare a casa una generazione, forse pure due, di merdoni.
Sarebbe già qualcosa.
Vietare alle radio e alle tv di parlare di calcio per più di 10 minuti al giorno, non possiamo rincoglionire una popolazione con Adriano che ha le paturnie (guadagnando come lui, forse le avrei anche io), Totti e i suoi figli dai nomi improbabili, e i complotti contro la Juve. Si spenga tutto, si abbassi il volume, si torni ad un calcio giocato 90 minuti la settimana, e non parlato per i restanti 6 giorni e 23 ore.
Fomenta anche questo.
In Usa, patria di molti sport, non ricordo che succedano queste cose. Proviamo ad importare qualche idea, oltre alla moviola in campo. Tipo abolire le retrocessioni per qualche anno, dando vigore ai vivai e a una educazione dei tifosi, che possono anche aspettare più delle consuete 4 partite per cacciare l'allenatore di turno, tanto la squadra in Serie B non ci va.
Però qui entriamo nella categoria dei Soloni, quelli che hanno le soluzioni.
Io non ho soluzioni, semmai qualche domanda: qualcuno ci può spiegare cosa è accaduto ad Arezzo, o farà la fine di Ustica questo omicidio? perchè i violenti degli stadi, che sono sempre i soliti 200, sono sempre a piede libero? Pure il daspo si sono inventati qualche anno fa, che cosa inutile...
Quella fra poliziotti e tifosi è una guerra fra poveri. E le guerre fra poveri, spesso, finiscono molto male, che tutti e due hanno ben poco da perdere.
Ultima annotazione, ultimo fatto. Che molti hanno bypassato. Un ragazzo è morto, più o meno come morì Giuliani a Genova: che divenne eroe anche se stava tirando una bombola su un carabiniere. Oggi questo ragazzo non stava facendo nulla, forse dormiva addirittura. Forse diventerà un eroe anche lui, ma farà parte di quegli eroi Serie B, di quelli che se ne parla per 3 giorni, e nessuna madre che diventerà senatrice in suo imperituro ricordo.
La vicenda di Genova ebbe bisogno di un eroe per esplodere in tutta la sua virulenza, nel male di quei tre giorni, qui del morto non si parla, ma solo di cosa fare. In fondo Genova era circoscritta come episodio, gli stadi rimangono, i tifosi pure. Più dei no-global.
Per questo si vorrebbe cancellarli. E cancellare così il calcio stesso, che senza tifosi diventerebbe play station.
Chi ha testa la usi, dice un proverbio, adatto a questi casi.
Ma ce ne sarà uno, uno solo, che ce l'avrà ancora fra tutti questi protagonisti?

lunedì 5 novembre 2007

Sogno morale

Quella mattina si era svegliata dopo le cinque, e si era rimessa a dormire, e aveva fatto un sogno, dove erano lei e lui, all’inizio.
Sapeva che stavano andando o entrando in un albergo. E che il nome dell’albergo era sant’Andrea. E che questo era l’unico momento in cui erano stati vicini, e insieme. Poi lui era già salito, e lei doveva raggiungerlo, e si era messa ad aspettare l’ascensore. E c’era un sacco di gente, ad aspettare. Perciò lei, che voleva arrivare subito da lui, si era decisa a salire le scale. Ma gli scalini erano così ripidi che, all’inizio, quasi cadeva all’indietro. Al primo pianerottolo c’erano altre persone ad aspettare l’ascensore, ma erano decine e decine e decine, alcune accoccolate in terra, altre non le vedeva nemmeno. Il suo passaggio era stato come un segnale, perché fu come se, in quel momento, si fossero resi conto tutti che, se non arrivava l’ascensore, c’era comunque un altro modo per salire, e cominciarono ad alzarsi per andare su a piedi anche loro.
Però improvvisamente lei non era più in albergo, ma fuori, e non sapeva come tornare indietro e trovarlo, e pensava: perché non mi telefona, perché non mi chiede come mai non arrivo?
Poi le venne in mente che lui aveva cambiato cellulare, o almeno numero di telefono, cose così. E di sicuro non aveva il suo numero nel cellulare nuovo, e non se lo ricordava di certo a memoria.
Allora telefonò al servizio informazioni, e chiese che le dessero il numero di lui, e loro glielo diedero, solo che, invece del numero, dissero una frase strana, che cominciava più o meno così: il cyemse de… e lei non capiva, non capiva, e non sapeva come avrebbe fatto a telefonare. Però c’era con lei la sua collega, Daniela, e dopo un po’ che provava a chiamare venne in mente (forse a lei o forse a quell’altra) che la frase che le avevano detto era il numero, bastava sostituire alle lettere il numero del tasto corrispondente. Così ci provò, ma era difficile capire bene la frase, e di fatto il numero non riuscì a chiamarlo. E intanto se ne andavano in giro per la cittadina, non erano più all’albergo, non trovavano nemmeno più l’albergo, e benché fossero a Milano, la cittadina aveva strade strette e piazzette piccole, dopo ci pensò, poteva essere Pavia, o forse ancora più piccola. Comunque, era di nuovo sola, ora, e non trovava l’albergo, e non trovava il numero di telefono di lui. e lui non chiamava, non poteva chiamarla. Allora pensò di cercare un taxi, e lo chiamò per telefono, e andò con il naso fino a un palmo da una targa per sapere in che strada fosse e far arrivare fin lì il taxi, ma quella targa era il nome di una scuola, di un istituto tecnico, le sembrava. Così, mentre parlava al telefono con l’autista, cercò in giro il nome della piazza, che da sveglia non si ricordò mai più, e lo disse, all’autista, e lui si mise a ridere e le disse: ma signora, lì c’è la zona della metropolitana, ma si capiva che in realtà con quella frase voleva dire che lei era nel centro storico. Così lei gli domandò se con quello voleva dire che non poteva andare a prenderla, e lui rispose: eeh, no…
E intanto lei pensava come era possibile che si fosse persa, che non riuscisse più nemmeno a trovare l’albergo, ed era urgente, perché voleva stare con lui, così riprovò a chiamare le informazioni, e stavolta le diedero una risposta diversa, perché evidentemente dopo tante volte che chiedevi e non riuscivi a chiamare allora ti aiutavano. Così le risposero che il numero era il sedici trentanove, e il resto del numero era di anticipare due mesi di versamento che poi, forse, il teatro avrebbe ripreso a funzionare. E lei, pur di chiamarlo, era disposta ad anticipare due mesi. Ma c’era il poi, c’era il forse, e c’era il teatro che non le interessava, allora disse: eh, no!
E a quel punto si svegliò, erano le sei e mezza ed era in ritardo.
E allora gli scrisse un messaggio da imparare a memoria.
Morale: tre due, otto otto, sessantacinque, settanta, diciotto.

giovedì 1 novembre 2007

A volte un dettaglio

È la storia di un uomo che vive con una donna.
L’Uomo torna a casa la sera e pensa com’è fortunato ad avere quella Donna lì, e quanto tempo è che stanno insieme, tanti anni.
Troppi, forse.
Ma ci sarebbe da chiedersi se ha senso la parola troppo, per l’amore.
In ogni modo, troppo lo dice il narratore, perché detto dal protagonista avrebbe un altro tono, di insofferenza, di stanchezza. E lui non è insofferente, né stanco.
Così sembra, almeno.
Comunque. Lui torna a casa e si guarda di sfuggita nello specchio d’entrata. Non gli piace, lo specchio, è dorato, barocco, pieno di fronzoli, e lo ha voluto lei, lui avrebbe preferito qualcosa di più semplice, senza foglioline e puttini intagliati nella pesante cornice.
Ma lei gli va benissimo, anche con lo specchio.
Lui dunque entra, guarda, e si vede, distrattamente, così: alto, scuro di capelli, solo un tocco elegante di grigio, barba ben fatta e niente baffi, perché ha una bocca forte e decisa, che quando sorride fa sorridere. Gli occhi, ora che se li guarda veloce allo specchio, sembrano un po’ stanchi, ma siamo a fine giornata, il lavoro, la metropolitana, la fine giornata, si sa.
Adesso, però, si deve decidere a entrare in sala. O in cucina. Sono soli, loro due. Lei ha voluto rimandare, per i figli. Adesso è troppo tardi.
Ma così sono più liberi. Lei può aspettarlo preparando una cena velocissima, o niente cena, se le va di seguire uno di quei programmi dove Giusy, o Melissa, o Valentina o Titty o Samantha straparlano, piangono, si strillano addosso. Le prime volte Lui tornava, passava in cucina, sentiva la Tv e gridava che quelle erano proprio sceme e rideva e chi le voleva donne così. Rideva anche Lei, ma un po’ si arrabbiava, come quando compri un vestito nuovo, te lo metti, e quando chiedi un parere ti dicono che è uno schifo, e tu pensi: ma come? Uno schifo? Se a me piace tanto.
Dopo un po’ Lei aveva cominciato a non ridere più delle sue battute, e Lui aveva rinunciato a farle, perché in fondo l’amava. E non voleva perderla.
E quella sera, comunque, Lui la trova in sala e le ricorda che devono uscire a vedere un film. Lei vuole andare all’Iris dove danno qualcosa tipo Vanzina, che saranno pure un cult ma meglio evitare. Lui vuole andare al Plaza per gustarsi in pace Spike Lee.
Ci sarebbe da chiedersi come fanno due così a stare insieme.
Ecco, forse lei è bellissima. Sarebbe meglio descriverla, con Lui che entra e la vede sdraiata sul divano. Il divano è scomodissimo, l’ha scelto Lei, e ci sta bene solo Lei. E Lui adesso si chiede se è per quello che non gli va più di guardare la televisione, perché sta troppo scomodo, si siede, si allunga, si rialza, accavalla le gambe, si stende, dammi il cuscino, si stende e così via da capo.
Ma insomma, divano o no, lei è un bel colpo d’occhio, così stesa, con una vestaglietta leggera leggera, il gomito appoggiato al bracciolo, il piedino che ciondola mentre guarda la mezza dozzina di deficienti che fanno e dicono cose assurde nella scatola luminescente là in fondo.
Mentre alza lo sguardo e fa un sorriso da qui a là, ma non raggiunge gli occhi.
Mentre sgranocchia noccioline a anacardi, seminando qui e là bucce e pellicine, che poi è un disastro e quella volta che era venuto il Gigi a trovarli si era seduto e aveva sollevato un turbine di avanzi di pistacchi.
Comunque, a farla breve, bisogna pur dirlo che lei è bella. Persino molto bella, volendo. Per lo meno, è così che lui l’ha sempre vista, finora.
Bella, simpatica, forse un po’ terra terra, ma poteva andargli peggio.Poteva andargli come con Rita, la moglie di Paolo, che dopo sei anni di matrimonio e due figli è diventata più larga che alta, è ritenzione idrica, poi passa, dice, ma non passa niente, invece. O come con Mariagrazia, che è un figurino ma si è fatta rifare tutti i denti, che ora le ballano un po’ in bocca, e quando parla di qualcuno sibila come un serpente ed è sempre arrabbiata col mondo. Sì, poteva andargli molto peggio.
Magari, si ferma a pensare, poteva andargli meglio. È un pensiero fuggevole, di quelli che assomigliano ai sogni: quando ti ci fermi a ragionarci su non riesci più a ricordarli. Si vede che non era importante.
Su questo rimugina mentre, la saluta e dice:
“Ma… non dovevamo andare al cinema?”, che è una domanda diplomatica, non è proprio un rimprovero e spinge lei ad alzarsi e a prepararsi. Sempre meglio che rinchiudersi soli, uno di qua a leggere “La porta del sole”, una di là a guardarsi “Porta a porta” e quel tizio baffuto che ti spiega i sensi di colpa.
Lui si chiama Fabio, e gli diamo un nome perché sono i nomi che creano le cose, e forse anche le persone, e siamo quasi alla fine della storia e ancora non sappiamo chi sia, quest’uomo. È Fabio, dunque, e la ama moltissimo, ma a volte non la capisce.
Però in quel momento non importa: Lei, che si chiama Giulia, si alza e dice sì, che dovevano andarci, al cinema. E si prepara subito. E si fa trascinare al film di Spike Lee, e si diverte pure, segno che non tutto è perduto e che una redenzione è disponibile per chiunque voglia cogliere l’occasione.
Quando escono, si spostano al bar che rimane aperto fino a tardi e offre, dice la pubblicità, ottimi panini e gustose insalate. Si siedono e cominciano a parlare del film. Lei ammette di essersi divertita. Abbastanza, dice. Fine della conversazione.
Lui pensa che non hanno visto un film impossibile, che lei è stata sveglia tutto il tempo, proprio non c’è niente da dire? Non insiste, ché tanto ci pensa il cameriere a riempire il vuoto, poggiando davanti a loro quello che hanno ordinato: panino per lui, insalata per lei, che vuole “raggiungere il completo riequilibrio psico-fisico attraverso un’alimentazione a base di crudité e prodotti biologici.”
Masticano in silenzio per tutto il tempo necessario, e poi chiedono un caffè.
Nell’attesa, Fabio cerca qualcosa da dire sull’arredamento del locale. Dà un’occhiata circolare. Poi torna a guardare Giulia.
Ed è lì, in quel momento.
Ore zero e quaranta del sabato.
Bar Paninoteca Spaghetteria.
Tavolo d’angolo, tovaglia a quadretti bianchi e rossi.
Il posto di fronte a Fabio.
Giulia, tranquilla, scava tra i denti con l’unghia del mignolo. Le crudité hanno lasciato il segno. Un brandello minuscolo di spinacio (crudo) o di basilico, o di prezzemolo, ha deciso di attendere lì. Giulia lo sente, controlla nello specchietto, e provvede. Scava e gratta, lo guarda, tenta pure di sorridere.
E Fabio crolla.
Crolla su un particolare stupido, sì.
E la lascia. Giulia non lo sa ancora, ma è già deciso. Tra un minuto Fabio si alzerà, se ne andrà, ha qualche giorno di ferie arretrato, si cercherà un altro appartamento. Tutto a posto.
Tra un minuto.
La guarda ancora, pensa all’addio e vede la sua vita futura: da solo, qualche avventura ogni tanto. Niente crudité, niente specchio, nessuno che lo aspetta a casa. Il suo amico Paolo gli farà vedere le foto dei nipotini; lo inviteranno a cena se saranno dispari; vedrà tutti i film che vuole, Kurosawa, Antonioni, Zeng Zhuangxiang e tutto tutto Fellini.
Magari piangerà, qualche volta. Ma non importa.
Ha amato tanto Giulia, così tanto che il suo bene per lei ha sempre coperto tutto. Sempre. Tutte le cose importanti.
Adesso, non gli rimane più niente per i dettagli.
E a volte un dettaglio può uccidere una poesia.
Figuriamoci un amore.